Pazienti Omosessuali e Orientamento Sessuale del Terapeuta
I pazienti omosessuali possono beneficiare maggiormente di una psicoterapia con un terapeuta omosessuale oppure eterosessuale?
Come può declinarsi questa variabile – eminentemente soggettiva – nella relazione terapeutica?
Spesso succede che l’appartenenza a una minoranza – religiosa, culturale, etnica o, appunto, di orientamento sessuale – spinga a scegliere terapeuti che condividano la stessa forma di discriminazione, nella speranza di trovare una maggiore comprensione dei propri vissuti (minority stress) e della propria esperienza, ma anche per eludere risposte patologizzanti o riparative.1
Credo che questa inclinazione non solo sia del tutto comprensibile, ma trovi anche ragione d’essere in un clima culturale ancora retrivo, benché in evoluzione, su questi temi, non del tutto epurato da pregiudizi (anche quelli di segno positivo “gli omosessuali sono persone sensibili”), al punto che sarebbe ingenuo definirla tout court una strategia difensiva del paziente.
Basti pensare al lento processo di depatologizzazione dell’omosessualità da parte della psicoanalisi e, più in generale della psicologia, per comprendere l’entità della questione.2 In questa direzione, dal 2010 in avanti, sono state effettuate delle ricerche coadiuvate dai vari Ordini regionali degli psicologi, a partire dalla domanda di Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli – della facoltà di psicologia La Sapienza di Roma – sull’atteggiamento degli psicologi verso l’omosessualità. I risultati mostrano come solo il 73% degli psicologi ritiene l’omosessualità una variante normale della sessualità (come affermato dall’OMS)3 e che, ciononostante, sono ancora numerosi i professionisti che sostengono diverse ipotesi sull’eziopatogenesi dell’omosessualità (segnalando un’impreparazione sul tema, visto che l’omosessualità non è una malattia, né una scelta, ma qualcosa che capita). Ben il 63% degli intervistati sostiene che i pazienti omosessuali possano beneficiare di un intervento psicologico volto alla modificazione del loro orientamento, perpetuando bias culturali e sociali dannosi e iatrogeni per la salute mentale delle persone omosessuali, spesso frutto di una cultura dai valori eteronormati (basti pensare che, come scrive Lingiardi4, sono rarissimi i libri di testo che descrivono lo sviluppo psicologico normale degli individui omosessuali).
Scegliere un terapeuta omosessuale può dunque rappresentare un vantaggio se partiamo dall’assunto che il clinico, in virtù della sua personale esperienza, abbia meno apriori rispetto a tematiche come la sessualità, e quindi che il paziente possa sentirsi più predisposto a raccontarsi e ad aprirsi.
Si presume inoltre che un terapeuta abbia, grazie all’analisi personale, accettato, elaborato o quantomeno conosciuto le sue personali idiosincrasie rispetto alla sua identità gay o lesbica, proponendosi come un modello positivo e saldo per il paziente. Nello stesso tempo, un paziente omosessuale che proietta sul suo terapeuta omosessuale tutte le sue istanze omofobiche, può avvalersi della possibilità di elaborarle proprio con l’aiuto di qualcuno che le ha vissute sulla sua pelle.
Di converso esistono anche dei potenziali svantaggi nel credere che, solo in virtù della condivisione dello stesso orientamento sessuale, si condividano di default anche altre caratteristiche personali o esperienze umane. Il rischio maggiore è di scivolare in situazioni in cui l’illusione di vivere la stessa condizione autorizzi il terapeuta a fornire al paziente le sue soluzioni, evitando di interrogare i vissuti del paziente, di approfondire i suoi significati più o meni inconsci. Pensiamo ad esempio a un terapeuta che ha vissuto con estrema complessità il suo coming out, provenendo da una famiglia fortemente conservatrice e appartenendo a un’epoca storica meno evoluta di oggi su questi temi. Se questo terapeuta generalizzasse la sua esperienza a quella del suo giovane paziente, potrebbe per esempio rischiare di agire un’influenza dissuasiva sul suo coming out, mancando di farlo riflettere sul senso profondo che può avere per lui fare o non fare questa dichiarazione sul proprio orientamento. Se un terapeuta non ha sufficientemente elaborato il suo minority stress e la sua omofobia interiorizzata, potrebbe infatti colludere con la necessità del paziente di evitare affetti dolorosi,5 non spingendo il paziente a scendere in profondità, oppure a farlo reattivamente bruciando le tappe.
Esistono dei vantaggi per un paziente omosessuale anche nell’affidarsi a un terapeuta eterosessuale. Questa combinazione consente al paziente, per esempio, di esplorare le sue proiezioni sul terapeuta (Come vengono viste le persone gay e lesbiche dal mondo eterosessuale? Come mi sento visto?). L’esperienza di trovare qualcuno, al di fuori della comunità omosessuale, che ha una visione aperta e accogliente su questi temi, può compensare ed ammortizzare antecedenti esperienze ostracizzanti e di rifiuto. Spesso infatti la ferita più sanguinante delle persone omosessuali è quella di non sentirsi accettate per quelle che sono, proprio dalle persone che avrebbero dovuto amarle senza condizioni, il ché di frequente esacerba in forme di omofobia interiorizzata. In una lettera a Mauri, Pasolini scriveva: “Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro.”6
In conclusione, da un lato, un terapeuta con un’identità gay o lesbica sicura può costituire un vantaggio per il paziente omosessuale, dall’altro lato questa condizione non è garanzia di competenza e ascolto profondo. Al di là dell’orientamento sessuale, i requisiti imprescindibili di un terapeuta di un paziente gay o di una paziente lesbica dovrebbero essere:
- pensare all’omosessualità come a una variante normale dello sviluppo;
- interessarsi alle cause dell’omofobia non a quelle dell’omosessualità;
- impegnarsi a osservare i propri pregiudizi sul tema, anche di segno positivo, proprio in qualità di abitante di una cultura eteronormata. Se non riconosciuti, questi pregiudizi guidano un ascolto confermativo e non esplorativo dell’altro;
- essere consapevole che a volte l’omosessualità può essere utilizzata come capro espiatorio per non affrontare delle difficoltà sottostanti; per esempio una persona che chiede di essere guarita dalla propria omosessualità è una persona che non va riconvertita, ma aiutata a capire il motivo della sua difficoltà ad accettarsi.“7
[1] Le terapie riparative sono modelli terapeutici privi di evidenza scientifica, ma con forti evidenze iatrogene che, partendo da un’idea di omosessualità come espressione di un disturbo del normale sviluppo, mirano a guarirla.
[2] Breve excursus: un tempo la psicoanalisi, sulla scia di Freud, intendeva l’omosessualità come una forma di immaturità, di narcisismo o di perversione; numerose sono state le teorie che tentavano di spiegarne l’eziologia ricorrendo, per l’omosessualità maschile, alla classica configurazione madre iperprotettiva e padre assente. Tali pregiudizi ricadevano non solo sui pazienti, ma anche sui candidati psicoanalisti che fino agli anni novanta non erano ammessi al training. Nel più importante manuale statistico dei disturbi mentali – il DSM redatto dall’APA (American Psychiatric Association) – la depatologizzazione completa dell’omosessualità è avvenuta nel 1987. Nel 1990 anche l’OMS depenna l’omosessualità dall’ICD-10 dall’elenco delle malattie mentali.
[3] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm
[4] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm, ibidem
[5] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm, ibidem
[6] Lettera a Silvana Mauri del 10 febbraio 1950 pp 389-390
[7] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm
I pazienti omosessuali possono beneficiare maggiormente di una psicoterapia con un terapeuta omosessuale oppure eterosessuale?
Come può declinarsi questa variabile – eminentemente soggettiva – nella relazione terapeutica?
Spesso succede che l’appartenenza a una minoranza – religiosa, culturale, etnica o, appunto, di orientamento sessuale – spinga a scegliere terapeuti che condividano la stessa forma di discriminazione, nella speranza di trovare una maggiore comprensione dei propri vissuti (minority stress) e della propria esperienza, ma anche per eludere risposte patologizzanti o riparative.1
Credo che questa inclinazione non solo sia del tutto comprensibile, ma trovi anche ragione d’essere in un clima culturale ancora retrivo, benché in evoluzione, su questi temi, non del tutto epurato da pregiudizi (anche quelli di segno positivo “gli omosessuali sono persone sensibili”), al punto che sarebbe ingenuo definirla tout court una strategia difensiva del paziente.
Basti pensare al lento processo di depatologizzazione dell’omosessualità da parte della psicoanalisi e, più in generale della psicologia, per comprendere l’entità della questione.2 In questa direzione, dal 2010 in avanti, sono state effettuate delle ricerche coadiuvate dai vari Ordini regionali degli psicologi, a partire dalla domanda di Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli – della facoltà di psicologia La Sapienza di Roma – sull’atteggiamento degli psicologi verso l’omosessualità. I risultati mostrano come solo il 73% degli psicologi ritiene l’omosessualità una variante normale della sessualità (come affermato dall’OMS)3 e che, ciononostante, sono ancora numerosi i professionisti che sostengono diverse ipotesi sull’eziopatogenesi dell’omosessualità (segnalando un’impreparazione sul tema, visto che l’omosessualità non è una malattia, né una scelta, ma qualcosa che capita). Ben il 63% degli intervistati sostiene che i pazienti omosessuali possano beneficiare di un intervento psicologico volto alla modificazione del loro orientamento, perpetuando bias culturali e sociali dannosi e iatrogeni per la salute mentale delle persone omosessuali, spesso frutto di una cultura dai valori eteronormati (basti pensare che, come scrive Lingiardi4, sono rarissimi i libri di testo che descrivono lo sviluppo psicologico normale degli individui omosessuali).
Scegliere un terapeuta omosessuale può dunque rappresentare un vantaggio se partiamo dall’assunto che il clinico, in virtù della sua personale esperienza, abbia meno apriori rispetto a tematiche come la sessualità, e quindi che il paziente possa sentirsi più predisposto a raccontarsi e ad aprirsi.
Si presume inoltre che un terapeuta abbia, grazie all’analisi personale, accettato, elaborato o quantomeno conosciuto le sue personali idiosincrasie rispetto alla sua identità gay o lesbica, proponendosi come un modello positivo e saldo per il paziente. Nello stesso tempo, un paziente omosessuale che proietta sul suo terapeuta omosessuale tutte le sue istanze omofobiche, può avvalersi della possibilità di elaborarle proprio con l’aiuto di qualcuno che le ha vissute sulla sua pelle.
Di converso esistono anche dei potenziali svantaggi nel credere che, solo in virtù della condivisione dello stesso orientamento sessuale, si condividano di default anche altre caratteristiche personali o esperienze umane. Il rischio maggiore è di scivolare in situazioni in cui l’illusione di vivere la stessa condizione autorizzi il terapeuta a fornire al paziente le sue soluzioni, evitando di interrogare i vissuti del paziente, di approfondire i suoi significati più o meni inconsci. Pensiamo ad esempio a un terapeuta che ha vissuto con estrema complessità il suo coming out, provenendo da una famiglia fortemente conservatrice e appartenendo a un’epoca storica meno evoluta di oggi su questi temi. Se questo terapeuta generalizzasse la sua esperienza a quella del suo giovane paziente, potrebbe per esempio rischiare di agire un’influenza dissuasiva sul suo coming out, mancando di farlo riflettere sul senso profondo che può avere per lui fare o non fare questa dichiarazione sul proprio orientamento. Se un terapeuta non ha sufficientemente elaborato il suo minority stress e la sua omofobia interiorizzata, potrebbe infatti colludere con la necessità del paziente di evitare affetti dolorosi,5 non spingendo il paziente a scendere in profondità, oppure a farlo reattivamente bruciando le tappe.
Esistono dei vantaggi per un paziente omosessuale anche nell’affidarsi a un terapeuta eterosessuale. Questa combinazione consente al paziente, per esempio, di esplorare le sue proiezioni sul terapeuta (Come vengono viste le persone gay e lesbiche dal mondo eterosessuale? Come mi sento visto?). L’esperienza di trovare qualcuno, al di fuori della comunità omosessuale, che ha una visione aperta e accogliente su questi temi, può compensare ed ammortizzare antecedenti esperienze ostracizzanti e di rifiuto. Spesso infatti la ferita più sanguinante delle persone omosessuali è quella di non sentirsi accettate per quelle che sono, proprio dalle persone che avrebbero dovuto amarle senza condizioni, il ché di frequente esacerba in forme di omofobia interiorizzata. In una lettera a Mauri, Pasolini scriveva: “Io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c’entrava con me. Me la sono sempre vista accanto come un nemico, non me la sono mai sentita dentro.”6
In conclusione, da un lato, un terapeuta con un’identità gay o lesbica sicura può costituire un vantaggio per il paziente omosessuale, dall’altro lato questa condizione non è garanzia di competenza e ascolto profondo. Al di là dell’orientamento sessuale, i requisiti imprescindibili di un terapeuta di un paziente gay o di una paziente lesbica dovrebbero essere:
- pensare all’omosessualità come a una variante normale dello sviluppo;
- interessarsi alle cause dell’omofobia non a quelle dell’omosessualità;
- impegnarsi a osservare i propri pregiudizi sul tema, anche di segno positivo, proprio in qualità di abitante di una cultura eteronormata. Se non riconosciuti, questi pregiudizi guidano un ascolto confermativo e non esplorativo dell’altro;
- essere consapevole che a volte l’omosessualità può essere utilizzata come capro espiatorio per non affrontare delle difficoltà sottostanti; per esempio una persona che chiede di essere guarita dalla propria omosessualità è una persona che non va riconvertita, ma aiutata a capire il motivo della sua difficoltà ad accettarsi.“7
[1] Le terapie riparative sono modelli terapeutici privi di evidenza scientifica, ma con forti evidenze iatrogene che, partendo da un’idea di omosessualità come espressione di un disturbo del normale sviluppo, mirano a guarirla.
[2] Breve excursus: un tempo la psicoanalisi, sulla scia di Freud, intendeva l’omosessualità come una forma di immaturità, di narcisismo o di perversione; numerose sono state le teorie che tentavano di spiegarne l’eziologia ricorrendo, per l’omosessualità maschile, alla classica configurazione madre iperprotettiva e padre assente. Tali pregiudizi ricadevano non solo sui pazienti, ma anche sui candidati psicoanalisti che fino agli anni novanta non erano ammessi al training. Nel più importante manuale statistico dei disturbi mentali – il DSM redatto dall’APA (American Psychiatric Association) – la depatologizzazione completa dell’omosessualità è avvenuta nel 1987. Nel 1990 anche l’OMS depenna l’omosessualità dall’ICD-10 dall’elenco delle malattie mentali.
[3] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm
[4] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm, ibidem
[5] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm, ibidem
[6] Lettera a Silvana Mauri del 10 febbraio 1950 pp 389-390
[7] https://www.psicoterapiaescienzeumane.it/lingiardi-firetto.htm
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