Le Parole Possono Curare?
Nella stanza d’analisi, la parola è un innesco e serve a mettere in moto associazioni di pensieri.
Noi analisti dobbiamo scegliere con cura le parole che usiamo. Come un amo che pesca certi pesci e non altri a seconda dell’esca che uso[1], anche una certa parola attiva un certo flusso associativo e non un altro.
Se dico “sua mamma” anzichè “sua madre” il compasso emotivo genera ampiezze differenti.
Se dico “oggi la vedo nervoso o irritato, oppure, fuori di sé o infuriato” o ancora “depresso o triste” inevitabilmente faccio risuonare ricordi, esperienze e addirittura immagini diverse.
Di più, un certo uso delle parole stimola anche una certa esperienza relazionale tra paziente e analista. Per esempio, se per esprimere un concetto uso una lingua familiare come uno slang locale, o un’espressione più forbita, addirittura aulica cosa voglio comunicare? Una vicinanza, un’insicurezza, una sfida, un confine da non superare?
Le parole curano nella misura in cui riescono ad alfabetizzare le emozioni, per poi renderle rappresentabili. Può succedere, infatti, che quando viviamo un evento emotivamente troppo intenso (come un forte dispiacere legato a un evento improvviso che coglie impreparati) o situazioni di lieve intensità emotiva, ma croniche in cui il detonatore è dato dal loro effetto cumulativo, ci troviamo disarmati nel riuscire ad affrontarle su un piano riflessivo. In quei casi le emozioni vengono registrate solo a livello sensoriale, corporeo o di istinto, quindi conosciute col corpo, ma non pensate dalla mente. Le emozioni non pensate, rimangono così non elaborate, e conservano intatta la loro dolorosa portata affettiva senza che la persona riesca a ricollegarle all’evento o agli eventi primigeni. L’emozione incapsulata condiziona la persona in maniera a lei imperscrutabile, influenzando il suo senso di sé (per esempio quello che pensa di meritare o di poter ottenere, le aspettative verso l’altro, l’idea che l’altro può avere di sè) e la vota spesso alla ripetizione, soprattutto in campo relazionale.
L’uso curativo della parola si esplica infine pienamente solo all’interno di una relazione tra due persone. Non a caso sono le relazioni (soprattutto primarie) che hanno dato forme alle convinzioni che abbiamo di noi, ed è sempre in un campo relazionale che è possibile modificarle.
Leggere le parole di un libro di psicologia, infatti, non cura perché genera un sapere intellettualistico ed è un’esperienza individuale. La comprensione di sé può dirsi tale solo se avviene all’interno di una relazione in cui, sentirsi compresi, come dice la parola stessa, equivale anche a sentirsi con-presi (“presi insieme”) – e quindi inclusi dentro, contenuti.
[1] Da Correale Antonello
Nella stanza d’analisi, la parola è un innesco e serve a mettere in moto associazioni di pensieri.
Noi analisti dobbiamo scegliere con cura le parole che usiamo. Come un amo che pesca certi pesci e non altri a seconda dell’esca che uso[1], anche una certa parola attiva un certo flusso associativo e non un altro.
Se dico “sua mamma” anzichè “sua madre” il compasso emotivo genera ampiezze differenti.
Se dico “oggi la vedo nervoso o irritato, oppure, fuori di sé o infuriato” o ancora “depresso o triste” inevitabilmente faccio risuonare ricordi, esperienze e addirittura immagini diverse.
Di più, un certo uso delle parole stimola anche una certa esperienza relazionale tra paziente e analista. Per esempio, se per esprimere un concetto uso una lingua familiare come uno slang locale, o un’espressione più forbita, addirittura aulica cosa voglio comunicare? Una vicinanza, un’insicurezza, una sfida, un confine da non superare?
Le parole curano nella misura in cui riescono ad alfabetizzare le emozioni, per poi renderle rappresentabili. Può succedere, infatti, che quando viviamo un evento emotivamente troppo intenso (come un forte dispiacere legato a un evento improvviso che coglie impreparati) o situazioni di lieve intensità emotiva, ma croniche in cui il detonatore è dato dal loro effetto cumulativo, ci troviamo disarmati nel riuscire ad affrontarle su un piano riflessivo. In quei casi le emozioni vengono registrate solo a livello sensoriale, corporeo o di istinto, quindi conosciute col corpo, ma non pensate dalla mente. Le emozioni non pensate, rimangono così non elaborate, e conservano intatta la loro dolorosa portata affettiva senza che la persona riesca a ricollegarle all’evento o agli eventi primigeni. L’emozione incapsulata condiziona la persona in maniera a lei imperscrutabile, influenzando il suo senso di sé (per esempio quello che pensa di meritare o di poter ottenere, le aspettative verso l’altro, l’idea che l’altro può avere di sè) e la vota spesso alla ripetizione, soprattutto in campo relazionale.
L’uso curativo della parola si esplica infine pienamente solo all’interno di una relazione tra due persone. Non a caso sono le relazioni (soprattutto primarie) che hanno dato forme alle convinzioni che abbiamo di noi, ed è sempre in un campo relazionale che è possibile modificarle.
Leggere le parole di un libro di psicologia, infatti, non cura perché genera un sapere intellettualistico ed è un’esperienza individuale. La comprensione di sé può dirsi tale solo se avviene all’interno di una relazione in cui, sentirsi compresi, come dice la parola stessa, equivale anche a sentirsi con-presi (“presi insieme”) – e quindi inclusi dentro, contenuti.
[1] Da Correale Antonello
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